Niente lacrime di coccodrillo. L’affetto dimostrato ininterrottamente da ieri sera nei confronti di Vujadin Boskov dai media e dai tifosi di tutta Italia, è sincero e non di circostanza, e lo possiamo affermare con certezza. Non potrebbe essere altrimenti. Troppo dolci sono i ricordi lasciati da quest’uomo gentile e allegro, che aveva conquistato le simpatie di tutto lo Stivale con le sue lezioni di filosofia calcistica, pronunciate con un italiano non impeccabile.
Gli appassionati di calcio ripensano ancora oggi con nostalgia alle immagini di quella rivoluzionaria Sampdoria da lui disegnata a sua immagine e somiglianza: disponibile coi media e coi tifosi, sempre pronta a fare festa, attiva nel campo della solidarietà, spensierata e lontana dalle polemiche. Qualità che raramente fanno rima con vittoria. E invece, quel gruppo di “matti” portò a casa trofei su trofei e si abituò a giocare costantemente in Europa. Una novità per il popolo doriano, fino a pochi anni prima abituato a lottare per la salvezza e all’improvviso catapultato dentro un sogno.
L’era della “Sampdoro” di Paolo Mantovani combacia perfettamente con la gestione del tecnico serbo. Un uomo che aveva il Doria nel destino, visto che si era fugacemente vestito di blucerchiato anche da giocatore, nella lontana stagione 1961-62. Ma è ovviamente nei panni da allenatore che Boskov, innamorato di Genova e della Samp, è divenuto un’icona del club. Lo “zio Vuja”, con la sua squadra giovane e ribelle, sfidò le grandi compagini portando la Samp – a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, quando il nostro era davvero il campionato più bello del mondo – laddove non aveva mai osato spingersi. Cioè, al successo della Coppa delle Coppe del ‘90, vinta a Göteborg contro l’Anderlecht (2-0 ai supplementari, doppietta di Vialli) e a quello dello scudetto del ‘91, l’unico nella bacheca doriana e il solo portato nella città di Genova nel dopoguerra. Era la Sampdoria di Vialli e Mancini, ma anche di Pellegrini, Mannini, Cerezo, Vierchowod, Pari, Lombardo. Un gruppo affiatato che concordò un patto: «Nessuno di noi se ne andrà di qui fino a quando non faremo nostro il titolo». Quei calciatori riuscirono a mantenere la promessa anche grazie alla sapiente guida del loro maestro, che alle battute spensierate accompagnava una preparazione minuziosa e una conoscenza tattica affinata nel corso delle precedenti esperienze europee.
Prima di venire in Italia, infatti, aveva già allenato in Svizzera (lo Young Boys), nella sua Jugoslavia (il Vojvodina e persino la nazionale), in Olanda (Den Haag e Feyenoord) e in Spagna (Saragozza, Real Madrid, Sporting Gijón). Al Den Haag vinse la Coppa d’Olanda; al Real Madrid un campionato e due Coppe del Re. Esaurita l’avventura iberica, ecco la trionfante stagione all’Ascoli (nel calcio di quegli anni era possibile vedere un allenatore passare in un paio d’anni dal Bernabeu al Del Duca). La vittoria del campionato cadetto con i bianconeri fece da preludio allo sbarco a Genova, dove lo attendevano la parte migliore della sua carriera (oltre allo scudetto e alla Coppa delle Coppe, fece sue anche due Coppe Italia e una Supercoppa) e la consacrazione tra i migliori allenatori in circolazione.
Allo “zio Vuja” è mancata solo una ciliegina. La vittoria della Coppa dei Campioni, maledettamente sfuggita all’ultimo atto in due occasioni. Nel 1981, quando allenava il Real Madrid, perse la finale contro il grande Liverpool di Bob Paisley: fu un gol di Alan Kennedy a pochi minuti dal 90’ a fissare il punteggio sull’1-0 e a spezzare i sogni di gloria. Nel 1992, negli ultimi echi dell’avventura doriana, il treno ripassò e Boskov ebbe un’altra occasione, ma sfortunatamente l’esito fu uguale dovette incassare un altro 0-1, questa volta maturato ai tempi supplementari. Una sassata di Koeman su punizione freddò Pagliuca e consegnò la coppa al Barcellona di Johann Cruijff. I catalani avevano già dato alla Samp e a Boskov un altro dispiacere: la finale di Coppa delle Coppe del 1989, a Berna, nella quale i blaugrana trionfarono per 2-0. Ma se quella sconfitta fu riscattata con la conquista del trofeo l’anno successivo, quella di Wembley rimarrà sempre la partita più amara della storia del club. Non ci furono possibilità di rivincita. Quello di Koeman non fu solo il gol che decise la finale: fu anche la rete che chiuse un’epoca. Paradossalmente, il calcio-allegria della Sampdoria, terminò con le lacrime di una sconfitta dolorosa.
Il ciclo era finito. Vialli andrà alla Juventus, Boskov si accaserà alla Roma. L’esperienza romana non fu esaltante e durò un solo anno. Ci fu comunque il tempo per lanciare un giovanissimo Francesco Totti, altro motivo di vanto del tecnico di Novi Sad. Lasciata la capitale, seguirono nuovi scali, con fortune alterne: Napoli, gli svizzeri del Servette, un’altra parentesi blucerchiata (nel 1997-98, in sostituzione dell’argentino Menotti), Perugia. Di coppe non ne giungeranno più, ma in compenso arriverà una seconda chiamata dalla nazionale slava – già allenata nei primi anni Settanta – con cui prenderà parte a Euro 2000. Sarà l’ultimo torneo a cui la Jugoslavia, ormai di fatto diventata Serbia-Montenegro, prenderà parte con tale nome.
(articolo per il blog del Guerin Sportivo)